Vogliamo parlare di discriminazione/violenza di genere nel mondo del lavoro? Vogliamo parlare di gender gap? Vogliamo parlare del taglio dello stato sociale e delle sue ripercussioni?
Se nasco femmina, o meglio se sono socializzata femmina (il che vuol dire che qualcuno ha stabilito alla mia nascita che, essendo io dotata di una vulva, dovrò aderire ad un certo modello culturale sociale e politico) allora…se “nasco femmina”, una serie di sfighe tempesteranno il percorso della mia vita come mine in un campo, una serie di penalità saranno poste sul mio cammino a prescindere dal mio impegno, a prescindere dalle mie capacità, a prescindere insomma…mentre una serie di altre cose saranno lì ad aspettarmi come regole imprescindibili, obblighi o di fatto simil obblighi, il cui mancato adempimento, la cui mancata affezione, si tramuterà in un rifiuto, in una “esclusione dalla corsa”, in una messa al bando dal consesso sociale.
Vediamo cosa succede nel mondo del lavoro.
Gap salariale.
Quello che mi capita in quanto donna è che se mi presento per un posto di lavoro saprò già in partenza che la probabilità che io venga assunta con uno stipendio più basso del mio collega maschio è, in Italia, molto alta: “Il World Economic Forum ha stimato nel report 2018 sul Global Gender Gap che l’Italia si troverebbe al 70esimo posto nel mondo per equità di genere.”. Mentre per quel che riguarda la disuguaglianza salariale siamo messe peggio: “l’Italia raggiunge solo il 126esimo posto nella classifica del World Economic Forum.”.
Opportunità di carriera.
Quali saranno poi le caratteristiche rilevanti nel mio colloquio? Quasi certamente si imporranno giudizi a partire da una serie di stereotipi di genere: sarò valutata per come mi presento e per quanta cura ho di me stessa sulla base di un modello dominante in cui tutta una serie di “faccende” vengono messe sulla bilancia.
Capelli, trucco, vestiti, unghie, questi aspetti, che paiono superflui, non lo sono affatto se si è donne e si vuole ottenere e poi mantenere un lavoro e questo capita a prescindere dal tipo di mansione che si andrà a svolgere. La “bella presenza” è nei fatti imposta e discriminante e per giunta il mercato ce la fa pagare di più che se fossimo maschietti.
Altri requisiti richiesti legati al mio genere saranno poi l’accondiscendenza, qualità materne, capacità di cura verso gli altri (comprensione, dolcezza, essere gentili) ordine e capacità organizzative (essere multitasking come qualunque “brava massaia”!). Queste qualità che la società pretende siano femminili non vengono monetizzate perché vengono ritenute connaturate alla natura delle donne. Sono aspetti del così detto lavoro riproduttivo e di cura storicamente svolti dalle donne nella società patriarcale presi e inseriti nel mondo del lavoro senza necessariamente attribuirvi un valore economico che diventano, in un sistema produttivo basato sul profitto e sullo sfruttamento, elementi di abbassamento delle tutele di tutt@.
Il mercato del lavoro non è necessariamente gender escludente, anzi, è capace di assorbire e capitalizzare, cioè mettere a profitto, le risorse che incontra sulla sua strada di dominio. Flessibilità di orari e di luoghi, moltiplicazione delle mansioni, una generale attenzione e predisposizione alla cura. Il lavoro che apparentemente sembra piegarsi alle esigenze dei soggetti che lo compiono e alle loro esigenze di vita, diventa in realtà, totalizzante, assorbente di spazi vita sempre più mescolati e rosicchiati.
La logica della competizione poi, così come quella della collaborazione aziendale, all’interno del sistema capitalista del lavoro, significa in ogni caso sfruttamento e in genere, quello che accade, è che vengo spinta in quanto donna a dare di più per dimostrarmi alla stessa altezza dei miei colleghi (il mio lavoro dovrà essere più preciso, più competente, più ficcante, per venire preso in considerazione) mentre al tempo stesso la mia condizione di aspirante, la mia condizione di soggetto debole perché escluso in genere dalla catena di comando e/o più ricattabile, si trasforma in un facile elemento di generale peggioramento delle condizioni per tutt@.
E’ molto probabile poi che durante un colloquio mi vengano poste domande sulla mia vita privata: se sono sposata, se ho un compagno stabile, se ho intenzione di fare figli… E tutto sommato se poi mi presentano un contratto da firmare debbo ritenermi fortunata se non lo accompagna nessun foglio in bianco in cui di fatto mi si chiede di firmare preventivamente il mio licenziamento in caso di gravidanza. Queste cose succedono ancora anche se la retorica patriottica ci vorrebbe sempre pronte a sfornare figlioli.
Il precariato oramai diffuso inoltre facilita ancora di più il datore di lavoro in questo senso: con un contratto a tempo determinato, chi si illude che poi venga rinnovato in caso di gravidanza? Alcuni lavori (come quelli che richiedono una grande disponibilità a viaggiare, un grande sforzo fisico, contatto con sostanze nocive ecc) sono incompatibili con una gravidanza e con la maternità. Quindi se hai un contratto precario senza tutele invece di cambiarti mansioni ti lasciano a casa. Mantenere il posto di lavoro quindi e fare carriera è più difficile rispetto a quello che accade ad un collega uomo e infatti, la proporzione tra uomini e donne si sposta sempre di più a favore dell’uomo nel momento in cui si sale la gerarchia verso i ruoli di potere e maggiormente retribuiti.
Smantellamento del welfare e disparità di genere.
E’ possibile poi che ad un certo punto della vita si decida davvero di generare un essere umano.
Le gioie della maternità, dalla gravidanza alla prima infanzia, sono minate da svariate problematiche legate al lavoro. In Italia esiste una legge che tutela le lavoratrici madri dipendenti mentre per esempio non ne esiste una per quelle autonome. Per la madre lavoratrice dipendente il congedo parentale obbligatorio è di 5 mesi mentre quello del padre è nell’anno solare 2020, salito a 7 giorni. Esistono comunque varie tipologie di contratto che non prevedono alcuna forma di supporto alla maternità.
Anche in questo caso la precarietà penalizza maggiormente la donna: tipico il caso delle partite IVA, che per di più spesso ci si trova a dover aprire, non in quanto vere lavoratrici autonome, ma perchè il tuo datore di lavoro scarica su di te tutti i costi che dovrebbero essere a suo carico (contributi, assicurazioni, etc…).
In ogni caso, uno dei problemi principali è che anziché promuovere leggi che permettano una maggiore ripartizione della cura ad esempio estendendo la tutela della maternità nelle varie tipologie contrattuali, aumentando la quantità del congedo parentale per entrambi i genitori e garantendo una adeguata retribuzione, in Italia si va in una direzione opposta, la Legge n. 145 del 30 dicembre 2018, (c.d. legge di bilancio 2019) ha per esempio, dato la possibilità alla madre di “fruire” del suo congedo obbligatorio a dopo il parto come se questa fosse una cosa che le future neo mamme dipendenti possano davvero autogestirsi. Quello che succede è che soprattutto le lavoratrici che hanno meno potere contrattuale si adeguano alle volontà dell’azienda e se il medico competente lo certifica lavorano fino all’ultimo secondo utile, se viene loro richiesto.
Ci sono poi i congedi parentali facoltativi che sono pagati meno di una normale giornata lavorativa. E dato che l’uomo di solito guadagna di più, chi resta a casa è in genere lei. “Secondo l’ Eurobarometro nel 2018 solamente il 13 per cento dei padri ha fatto o ha pensato di fare domanda per il congedo parentale.”.
Secondo gli ultimi dati Istat “le donne che lavorano a tempo determinato sono, nella media dei primi tre trimestri del 2019, il 17,3% e quelle a part time sono ormai un terzo, il 32,8% contro l’8,7% degli uomini. Il part time “non è cresciuto come strumento di conciliazione dei tempi di vita, ma nella sua componente involontaria” che ha superato il 60% del totale contro il 34,9 dello stesso periodo del 2007.” Il part time usato dunque dalle imprese come strumento di flessibilità più che come richiesta di bisogno di tempo vita peggiora ulteriormente la condizione della donna sommandosi a scelte familiari che, in un quadro in cui la parte maschile gode del privilegio del suo genere, sono già spesso orientate in questa direzione.
Lo smantellamento del welfare quindi, si carica sempre più sulle donne, che sia una scelta di coppia fatta per necessità in quanto lei di solito guadagna meno e/o ha meno opportunità di carriera o che sia una scelta culturale.
La donna di nuovo chiusa tra le mura domestiche.
Spesso quindi le condizioni di necessità della famiglia costringono molte donne a lasciare il lavoro e rimanere a casa. Questa soluzione, palesemente auspicata da alcuni gruppi politici, riduce la possibilità di autodeterminazione. La perdita dell’indipendenza economica contribuisce a generare situazioni di maggiore ricattabilità che possono diventare drammatiche nei casi di violenza domestica. Quello che accade poi sul lungo periodo è che le donne si ritrovano ad avere una minore disponibilità economica, le pensioni elargite dal sistema pensionistico mostrano questa disparità “Il 18% delle donne anziane…, non riceve alcuna forma di pensione, contro il 3% degli uomini.”
In generale si può dire però che il lavoro non finisce mai ma continua a casa tra le mura domestiche nella cura della casa stessa e dei suoi abitanti: le donne contribuiscono alla produzione familiare per il 71%.
Questo lavoro semplicemente non viene riconosciuto come tale e non viene sostenuto adeguatamente dalla società che pur trasformandosi nell’apparenza non compie una vera rivoluzione nella sostanza perché ancora strutturalmente basata su un sistema che è patriarcale che ha nei suoi tratti fondanti le disparità di genere come elemento di base.
E’ chiaro che è difficile compiere una precisa analisi delle implicazioni molteplici che guidano le scelte delle imprese, del mercato, degli Stati, e delle relazioni tra i vari poteri che controllano l’andamento delle nostre vite perché le forze che si mescolano sono molteplici e sarebbe riduttivo pensare che agiscano come Moloch unici. Vero è però, che esistono delle ricattabilità a cui alcune soggettività sono sottoposte, e queste ricattabilità generano una costante corsa al ribasso, che a lungo termine finisce per ledere i diritti di tutte e tutti. Quello che si è voluto dare qui è solo un piccolo e sicuramente parziale spunto di riflessione. L’Otto Marzo è UNA delle occasioni in cui dire queste cose, in cui rivendicare la necessità di sovvertire uno degli strumenti di dominio applicati alle vite di tutt@ noi in una prospettiva intersezionale e solidale. Lotto marzo è una di queste occasioni, lo sguardo transfemminista ci può e ci deve accompagnare in ogni momento della vita.
Argenide e Serafina
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